Informazione non è più sinonimo di giornalismo: non esiste più (o soltanto) il binomio informazione-giornalista, dove l’informazione si identificava quasi esclusivamente con la carta stampata e la televisione. Molto è cambiato: gli utenti, il linguaggio e il valore del sapere. Post verità e fake news sono temi molto sentiti negli ultimi anni, anche sotto l’aspetto legale. Ne abbiamo parlato con Alessandra B. Fossati, esperta di diritto dell’informazione e autrice con Massimo di Muro, del libro “La diffamazione tra media nuovi e tradizionali”, edito da Munari Cavani Publishing.
Viviamo in un mondo sempre più popolato da leoni da tastiera. Ogni giorno assistiamo ad aggressioni sempre più violente sui social. La Germania ha nei giorni scorsi approvato una legge che costringerà i social network a cancellare contenuti diffamatori, pena multe salatissime. In che modo il diritto italiano affronta questi temi?
La Germania ha dato il primo via libera alla legge contro le fake news, i contenuti pedopornografici e quelli di incitamento all’odio e al terrorismo. Il fine è assolutamente condivisibile: combattere la disinformazione che coinvolge i social network per debellare l’odio e le “bufale” su internet. Il legislatore tedesco ha previsto multe fino a 50 milioni di euro per i colossi del web come Facebook, Twitter, Youtube che non rimuoveranno i contenuti ritenuti sensibili, mentre i responsabili dei reclami rischieranno penali fino a 5 milioni di euro. I contenuti penalmente rilevanti dovranno essere cancellati o bloccati entro le 24 ore dalla richiesta. Ciascuna piattaforma dovrà realizzare un sistema di segnalazioni facilmente accessibile dagli utenti e dovrà altresì nominare un responsabile referente per la Germania.
Anche in Italia, il tema è molto attuale.
Il 28 febbraio scorso è stato presentato al Senato un nuovo progetto di legge contenente disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica combattendo la diffusione di notizie false. Il disegno di legge è volto a inserire nuove disposizioni in tema di alfabetizzazione mediatica nelle scuole, responsabilità dei gestori di siti internet, diritto di rettifica e pubblicazione della rettifica. Inoltre, il progetto di legge, contiene modifiche al codice penale con l’introduzione di nuove fattispecie di reato per contrastare la pubblicazione di fake news tramite i social (con risarcimenti maggiorati nel caso in la notizia falsa sia anche diffamatoria); la diffusione di notizie false che generino pubblico allarme o nocumento agli interessi pubblici; campagne d’odio contro individui o finalizzate a minare il processo democratico.
Di fronte al dilagare della macchina del fango, della rivendicazione del diritto all’oblio, di “bufale”, di dichiarazioni carpite più o meno legittimamente, di fuorionda mirati, che popolano, spopolano e sovrappopolano il circuito mediatico occorre rilanciare la qualità dell’informazione.
E’ vero si tratta di un progetto ardito e complicato alla luce delle degenerazione dei modi e dei costumi sociali, sempre più lontani dall’abc dell’etica sociale. Ma non impossibile e il cui raggiungimento non passa solo necessariamente – questa è la mia opinione – attraverso l’inasprimento delle sanzioni.
In parallelo alla doverosa e necessaria attività del legislatore, occorre una presa di coscienza e una rivendicazione del proprio lavoro e ruolo sociale da parte di tutti, addetti ai lavori in primis. Dei giornalisti, recuperando i propri principi deontologici che consentono, se correttamente applicati, di garantire un corretto esercizio del diritto di cronaca e di critica, nel rispetto dei soggetti coinvolti. Degli editori della carta stampata, della radio, della televisione ed dei colossi della Rete, compiendo uno sforzo coordinato e sinergico finalizzato a preservare l’informazione e la comunicazione diffondendo una cultura della Rete.
Qual è il confine tra un’affermazione pungente, online o offline, e la diffamazione?
La sensibilità e la coscienza sociale sul punto sono molto cambiate. Negli ultimi decenni si è assistito ad un progressivo mutamento – e impoverimento – del linguaggio.
La grande efficacia dei messaggi televisivi e di quelli che corrono sul web, che accompagnano alle parole immagini che captano immediatamente l’attenzione dello spettatore, ha imposto un mutamento anche dei messaggi “tradizionali” della carta stampata che, per catturare l’attenzione dei lettori, debbono non solo essere manifestati con linguaggio semplice ed immediato, ma anche resi con frasi, talvolta eccessive e/o suggestive, che siano tali da richiamare (anche) nel distratto lettore immagini e concetti significativi.
Il linguaggio usato non solo dai cittadini, ma anche da politici, esperti e, in generale, dai cd. opinion leaders è molto mutato già a partire dall’ultima parte del secolo scorso: molto più disinvolto, aggressivo, meno corretto, fino talvolta a trasmodare in vere e proprie contumelie.
Questo modo di esprimersi e di rapportarsi all’altro è certamente poco opportuno ed è sicuramente censurabile sul piano del costume, ma pare ormai accettato (o meglio, sopportato) dalla maggioranza dei cittadini.
Anche la giurisprudenza, di legittimità e di merito, ha recepito nelle sue pronunce il mutato costume sociale. Tuttavia – e sebbene in un paese democratico la libertà di espressione debba essere tutelata nel modo più ampio possibile – questo non può essere a scapito della reputazione e della onorabilità dell’individuo. Quindi un’affermazione non sarà solo pungente o provocatoria, ma sconfinerà nel reato di diffamazione quando trascenderà in attacchi personali diretti a colpire sul piano individuale, senza alcuna finalità di interesse pubblico, la figura morale del soggetto al quale è rivolta. Insomma quando la critica o l’opinione espressa sfocia nell’inutile aggressione alla sfera morale altrui non potrà invocarsi l’esimente del corretto esercizio del diritto di critica.
In che modo, in caso di diffamazione online, si gestisce la competenza nazionale?
La questione della giurisdizione nel reato di diffamazione online, proprio per l’illimitata estensione della Rete, si atteggia in maniera diversa a seconda del giudizio instaurato – penale o civile – e rileva, in ossequio all’orientamento tracciato dalla Suprema Corte, una generale tendenza dei giudici italiani ad affermare la propria competenza in tutte le fattispecie che abbiano un sufficiente collegamento con il territorio dello Stato e, ciò, a prescindere dai dubbi interpretativi che possano emergere in ragione del particolare mezzo di comunicazione utilizzato.
Facciamo un esempio pratico: un utente straniero che diffonde un messaggio diffamatorio – percepito anche in Italia – attraverso un sito gestito da un soggetto diverso dall’autore del messaggio e che utilizza il server di un internet service provider che ha collocato i propri serverfuori dai confini dell’Unione Europea.
In questi casi i giudici italiani, tendendo ad una nazionalizzazione della giurisdizione, riconoscendola ogniqualvolta la persona offesa ha nazionalità italiana o l’evento si realizza (anche) in Italia, in quanto la comunicazione diffamatoria è ivi percepibile.
La giurisprudenza di legittimità ha progressivamente affermato il criterio della competenza territoriale del luogo di residenza del soggetto danneggiato, in ragione del fatto che la lesione della reputazione e degli altri beni della persona è correlata all’ambiente economico e sociale nel quale la persona vive e opera e costruisce la sua immagine, e quindi svolge la sua personalità.
Per quanto riguarda le controversie di natura penale, semplificando in questa sede tutte le svariate problematiche che l’utilizzo di internet determina, possiamo affermare che la giurisdizione e la competenza del giudice penale italiano sussistono in tutti i casi in cui il reato non è stato commesso interamente all’estero.